Parroco ad Alife per 14 mesi / 1

Decisi di autonominarmi parroco di Alife con il desiderio di sperimentare il progetto di parrocchia emerso dal Sinodo diocesano appena celebrato, constatando che alcuni sacerdoti di fatto ritenevano non praticabili tali direttive, nate dal Concilio e dal recente Magistero. Paradossalmente essi, pur citando strumentalmente tali documenti per eliminare alcune tradizioni del passato (e per lavorare di meno), di fatto rimanevano legati al modello tridentino, ormai superato. Queste constatazioni mi portarono anche a rendermi conto delle grandi responsabilità di un vescovo e dell’importanza delle sue esperienze pregresse, che se sintonizzate solo a parole con le direttive del Magistero, rischiano di smorzare nei sacerdoti quel “coraggio di osare nella pastorale” che raccomandava il papa Paolo VI.

Tale decisione non fu apprezzata dai Sacerdoti. Alcuni apertamente dicevano: “Il Vescovo parroco della Cattedrale! Che figura sta facendo la nostra Diocesi!”.
Altri sotto sotto speravano che il tentativo non ottenesse successo, per affermare il “principio” che “ognuno deve fare il suo mestiere!”. Sembrava che dantescamente mi dicessero: “Or va tu sù che se’ valente!” (Purgatorio, IV, 114), lanciandomi una sotterranea sfida.

Ma io osai.

Mi trovai davanti ad un contesto molto segnato dalla pietà popolare, talvolta aggiornata e tal’altra ancora legata a forme che il Concilio aveva invitato a superare. Come pure ad una carenza paurosa di strutture pastorali per i giovani ed i fanciulli (una parrocchia di circa 6000 abitanti, oltre alla Chiesa e ad una bella casa canonica con salone parrocchiale, non aveva altro, riducendosi a chiedere ospitalità alla Scuola pubblica per gli incontri di catechismo); inoltre, come nel resto della Diocesi, dovetti registrare una pratica religiosa individualistica, con un debole senso della Comunità, che  viveva i Sacramenti come eventi personali e non come momenti forti per costruire Chiesa. Notai, altresì, un divorzio in atto tra la parrocchia e la gente, che vi ricorreva come ad una ASL del sacro (e non con la consapevolezza di avere lì la propria famiglia, la propria casa…) in occasione dei sacramenti, delle Messe per i defunti e pochissimo la domenica.
Anche il prete era sentito come il gestore unico/padrone della Parrocchia, di fronte al quale, salvo che per operazioni di manovalanza, gli altri erano considerati non collaboratori, ma esecutori. Concezione che aveva quasi azzerato i Consigli pastorale e degli Affari economici e aveva ridotto al minimo gli incontri formativi degli operatori parrocchiali. Al divorzio della gente dalla parrocchia corrispondeva quello di questa dalla Chiesa locale, cui si faceva riferimento soltanto quando nelle Feste celebrava il Vescovo.
Emblema della precarietà della situazione pastorale era un modestissimo altare di legno, da 53 anni collocato al centro della Cattedrale (con un ambone provvisorio), che faceva  a pugni con quello, bellissimo, sito in fondo all’abside e realizzato all’inizio dell’Ottocento.

Innanzitutto mi preoccupai di sistemare la Casa canonica e di arredarla a mie spese con i mobili necessari: anche se i doveri di vescovo non mi avrebbero permesso di dimorare abitualmente ad Alife, ritenni fondamentale che il vescovo/parroco dimorasse in parrocchia il più possibile. Cosa che facevo sovente soprattutto nel fine settimana, suscitando commenti positivi tra la gente, contenta di vedere che il pastore abitava accanto a loro, come uno di loro e non come un impiegato che si reca in ufficio in orari stabiliti, per poi tornare a casa. Anche per me questa esperienza di presenza e di condivisione fu molto bella e positiva.

Mi impegnai successivamente a destinare i locali adiacenti alla Chiesa di Santa Caterina, precedentemente occupati dalla Caritas diocesana (finalmente tornata a Piedimonte!) ai giovani e ad altre attività pastorali, avvantaggiato dal fatto che in quell’anno era presente il diacono don Alessandro, cui affidai la pastorale giovanile della Parrocchia.
Contestualmente attivai per il catechismo della Prima Comunione le stanze di una casa, non ancora utilizzata, che la Diocesi aveva acquistato per la Parrocchia l’anno precedente.
Tra Santa Caterina e i nuovi ambienti prospicienti alla Casa Canonica, finalmente i bambini e i giovani di Alife avevano il loro spazio personalizzato, dove potevano sentirsi a casa, vivere le loro esperienze, mettere cartelloni, dare un nome alla loro stanza di catechismo… Un fatto molto importante per insegnare che essere cristiano significa condividere un’esperienza di fraternità e di familiarità intorno alla Parola e all’Eucarestia, cosa  smentita da chi va a fare la “lezione” di catechismo in aule scolastiche, dove ha trascorso il resto della settimana, con altri obiettivi, vivendo un altro clima.
Era molto bello il sabato pomeriggio vedere i bambini che andavano a catechismo nei loro ambienti e i genitori che venivano a portarli e a prenderli. Questa nuova situazione mi permetteva anche di andarli spesso a salutare, incontrare, motivare loro i prossimi appuntamenti della Comunità. Ricominciarono anche gli incontri tra i catechisti, taluni organizzati tra loro e altri con me, riservando la formazione di base alla partecipazione agli incontri promossi dalla diocesi. In questo clima, fu una bella sorpresa per me vedere i catechisti impegnati a coinvolgere altri adulti nella catechesi per sostituire quelli che avevano lasciato tale servizio pastorale. Accanto a queste iniziative iniziarono gli incontri mensili con i genitori, tenuti da un animatore laico della Equipe diocesana della catechesi degli adulti, con me presente. Momenti bellissimi che creavano un clima di familiarità e di amicizia e che aiutavano i genitori a sentirsi parte della Parrocchia, ad educarsi al servizio alla Comunità e a capire che l’Eucarestia serve a costruire la Chiesa e non a fare soltanto una bella festa. La presenza dell’animatore laico, poi,  dava ai genitori la sensazione che si parlasse del rapporto della loro vita con il Vangelo e non che si ascoltassero discorsi di “esperti”, lontani dal loro linguaggio e dai loro interessi.

Una delle idee portanti della pastorale dei fanciulli e delle famiglie era quella della continuità: nella comunità cristiana come in famiglia si entra per crescere e non per ottenere un servizio temporaneo. Di conseguenza, il “catechismo” non consiste soltanto nell’imparare dei concetti o delle storie devote, ma prima ancora nel fare l’esperienza della costruzione del NOI (=Comunità), confrontandosi con il Vangelo, pregando e servendo i poveri. Ai bambini e agli adulti portavo spesso l’esempio del tavolo che si regge in piedi solo se ha quattro gambe, che nella vita cristiana sono: l’ascolto della Parola, la preghiera, la carità, la fraternità, e sono tutte necessarie. Questa idea portò famiglie e ragazzi a vivere in modo diverso la Domenica, diventata in quell’anno una vera festa di famiglia, cui partecipava abitualmente un gran numero di persone. Per sottolineare il significato di questo momento cambiammo i canti, scegliendone di più vivaci e comprensibili, coinvolgemmo tutti i gruppi nella preparazione della liturgia, ne scongelammo la fissità con alcuni gesti (doni significativi all’offertorio, i bambini a turno intorno al celebrante, il Canto del Padre nostro prendendoci per mano, l’omelia breve e dialogata, col celebrante che scendeva tra i banchi) e soprattutto il salutarci ed accoglierci spontaneamente prima e dopo la Messa, che era come dirci la gioia di incontrarci e prendere un sottinteso impegno a non mancare mai all’appuntamento (compreso il celebrante: nonostante gli altri appuntamenti diocesani, alla Messa delle famiglie sono mancato tre volte in un anno, prendendomi qualche velato rimprovero dei bambini: “Perché non c’eri domenica? Il Sacerdote che  ti ha sostituito è stato bravo,ma è meglio che ci stai tu…”).

Alla fine dell’anno, anche in ottemperanza alle decisioni del Sinodo, nacque il gruppo PIC, per i bambini che avevano fatto la prima comunione, per sottolineare che il gruppo di catechismo non è una classe che si scioglie col “diploma” e che i Catechisti non sono come i maestri che, finito un ciclo, tornano ad occuparsi dei nuovi iscritti, ma sono fratelli più grandi che continuano a vivere con loro l’esperienza di fede e di fraternità. Di fatti avevo notato che la concezione individualistica dei sacramenti porta a “sciogliere le righe” dopo la prima Comunione, creando un pauroso vuoto di ragazzi delle Medie e uno scarso numero (una diecina su 60 che avevano fatto la prima Comunione) di iscritti al catecumenato crismale (una bella esperienza per adolescenti, realizzata in sintonia con le direttive diocesane): la vita di fede – sostenevamo- non è legata solo ai Sacramenti e in Parrocchia non si va soltanto per prepararsi ad un rito, ma sempre, perché è bello!

In questo clima di corresponsabilità nei confronti dell’annuncio della Parola di Dio nacque l’esperienza della Preparazione dei genitori che chiedevano il Battesimo per i loro figli, trasformato da un momento di “istruzione religiosa” curato dal Sacerdote in un cammino di accoglienza nella comunità, gestito da coppie già inserite in Parrocchia, che tenevano due incontri a casa e accompagnavano poi i giovani genitori all’incontro col parroco e nella Festa del Battesimo, come espressine di una Comunità che accoglie, stabilisce contatti e prende per mano fin dall’inizio della vita cristiana.

Un buon lavoro fece don  Alessandro con i giovani, anche se trovò degli ostacoli a motivo di abitudini dovute all’abbandono in cui erano stati lasciati per troppo tempo, con la conseguente burocratizzazione di alcuni (che di fatto avevano bloccato l’ACR parrocchiale), che più che animati da passione missionaria erano preoccupati di affermare un loro piccolo potere.  Andavano prese delle decisioni, ma alla fine non feci in tempo.

+ don Valentino

 

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