Casa (canonica), dolce casa!

In occasione dei Patti Lateranensi del 1929, lo Stato Italiano dava alla Chiesa, a titolo di risarcimento per le spoliazioni fatte in occasione dell’Unità d’Italia e delle successive Leggi eversive, la somma complessiva di un miliardo e 750 milioni di lire. Una somma enorme per quei tempi ed “esagerata” per i soliti che non conoscono la Storia. Ma un risarcimento abbastanza modesto per chi sa che oggetto di spoliazione furono beni considerevoli come ad esempio il Palazzo del Quirinale, tanti Conventi di ogni parte d’Italia trasformati in caserme o in uffici, con altri importanti edifici e terreni… E che tale doloroso fenomeno investì quasi tutte le parrocchie italiane costrette a svendere in breve tempo e a prezzi stracciati (pena la confisca), beni, frutto di donazioni, che servivano alla carità, al sostentamento del Clero, alla manutenzione degli edifici di culto….

Molti non sanno che una parte cospicua  di quella somma fu destinata da Papa Pio XI alla costruzione di case canoniche, soprattutto al Sud d’Italia, dove vigeva la “piaga” dei “preti di casa”, sacerdoti che vivevano nelle loro famiglie, con innumerevoli condizionamenti alla libertà nell’esercizio del ministero, alla spiritualità e alla maturità… e anche alla loro testimonianza. Infatti, condividendo la vita con i familiari, spesso si dedicavano più del dovuto alla loro famiglia, suscitando la sfiducia e l’ironia della gente (“Viat’a chella casa addò chiereca ce trase …., etc.). Il problema era soprattutto del Meridione, perché al Nord era normale per parroci e “curati” (viceparroci) avere l’abitazione della parrocchia e in talune grandi diocesi, come Roma, vigeva (e vige) da secoli la vita comune dei sacerdoti nella casa canonica parrocchiale.

 

Girando per l’Italia ancora si trovano tante case canoniche che portano sulla facciata lo stemma del Papa Pio XI, realizzate nel periodo post concordatario. Questa scelta di un Papa lombardo, che era stato anche Arcivescovo di Milano, fu un fatto pastoralmente rilevante: per il prete vivere in casa canonica significa essere libero da (talora) pesanti condizionamenti, incarnarsi nella vita della sua comunità: essere uno di loro, anche con la presenza fisica, essere accessibile a tutti e a tutte le ore, diventare maturo e uscire dalla probabile condizione di “figlio di famiglia” (tanti giovani di oggi sentono questo “andare ad abitare da soli” quasi come il segno dell’essere diventati adulti), organizzarsi la giornata sulla base dei ritmi idonei ad una persona consacrata, diventare quasi un segno della protezione e della vicinanza del Signore per una comunità.

La casa canonica della parrocchia Sant’Andrea Ap. in Ruviano (CE), nella frazione di Alvignanello

È bello vedere un prete che abita in parrocchia e nella casa canonica! Testimonia che per lui che è celibe (e adulto), la sua famiglia è la gente affidata alle sue cure pastorali! Questo è un segno molto importante se è vero, come diceva un mio vecchio parroco, che la comunità cristiana si costruisce (oltre che con la preghiera del Pastore) meno con dotti sermoni o con trovate pastorali, e più camminando per le strade del paese, incontrando la gente, salutandola e chiedendo “come stai?”… Perché il dotto predicatore è un luminare da rispettare, il prete che si inventa trovate diverte e suscita ammirazione, ma chi ti conosce ed ha a cuore la tuo storia, quello è tuo padre!

Dispiace che la facilità di comunicazioni e la possibilità di avere una macchina fa sì che  alcuni preti non abitino nelle case canoniche, che a differenza di alcuni decenni fa, oggi possiedono quasi tutte le parrocchie (anche grazie all’impegno dei vescovi e ai contributi derivanti dall’8xMille) . Senza voler giudicare nessuno, temo che questa scelta, agli occhi della gente, rischi di assimilare la missione del prete a quella di un funzionario, di uno che ha scelto un mestiere, da esercitare negli orari fissati dal contratto di ingaggio e, oltre che appannare la dimensione della paternità, della scelta radicale di vita e della missione, di creare estraneità e distanza tra popolo e sacerdote.  A giustificazione della scelta di vivere in famiglia, taluni adducono la solitudine, la necessità di accudimento, le condizioni di salute…  Sono motivazioni (talora sofferte) che meritano rispetto, ma poi mi viene in mente che nessun uomo felicemente sposato lascia moglie e figli perché la mamma o i fratelli lo curano meglio. Pur con tutta la comprensione per il singolo caso, mi viene da pensare che in ballo c’è sempre la scelta tra “essere padre” o “essere scapolo” che la condizione celibataria pone ad ogni cristiano che il Signore chiama alla fortuna di essere sacerdote.

+ don Valentino

 

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