Passione di Cristo e del discepolo

“Tu m’hé mmiso int’e vene nu veleno ch’è doce, nun me pesa sta croce ca trascino pe’ te” (Mi hai messo nelle vene un dolce veleno, non mi pesa questa croce che trascino per te).
M’è venuto in mente questo noto ritornello della bellissima canzone napoletana “Passione”, mentre cercavo di ricomprendere il cuore del mistero pasquale, liberandolo dall’enorme ciarpame di vuoto devozionismo, di masochismo, di commiserazione e di sensi di colpa, con cui tanti, in questi giorni,  si avvicinano alla Passione, Morte e Resurrezione di Gesù.

Il testo, che ovviamente si riferisce all’esperienza di due innamorati, collega la passione d’amore alla sofferenza. La passione d’amore è definita un “veleno dolce” che penetra nelle vene e che è causa “croce”, sopportata volentieri guardando alla persona amata.

Mi pare che questo testo ci offra una bella chiave di lettura per comprendere il mistero della Pasqua cristiana, dando al termine “passione” un significato attivo e non passivo. In altri termini, non è  corretto intendere la “passione di Gesù” soltanto come “subire dei patimenti” ad opera di persone malvagie e caso mai per decreto divino (?!). La fede della Chiesa ci dice, infatti, che egli accettò volontariamente le sofferenze e la morte di croce, cioè vi andò incontro consapevolmente, considerandole come via necessaria per compiere  la missione affidatagli dal Padre, cioè quella di riscattare l’umanità dal male, dalla infelicità e dalla morte, che la privano dalla bellezza del vivere. Un esempio che illustra bene la scelta di Gesù, è quello di una madre in procinto di partorire cui annunciano che l’esito del parto potrebbe comportare la sua morte e che deliberatamente accetta anche di morire, purché il figlio venga alla luce e viva.

Allora penso che il termine “passione” dei racconti evangelici vada inteso soprattutto nel senso dell’ “appassionarsi” per amore. Parafrasando il testo della canzone, proprio perché “aveva nella vene” una amore grande per i fratelli, questa scelta è diventata per Gesù “veleno dolce” che porta alla croce che accetta di “trascinare” perché, come il Padre, è appassionato alla causa dei fratelli da salvare dalla banalità del vivere, dalla umiliazione e dalla morte. Questo ci suggerisce l’espressione del Vangelo di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna?” (Gv 3,16), che abbiamo letta nella IV domenica di Quaresima.

Se le cose stanno così, perché celebriamo il Venerdì santo, con l’intensa liturgia della Passione del Signore e le commoventi processioni di Gesù morto? Non certo per compatire e commiserare Gesù (non ne ha bisogno!), per esecrare i suoi carnefici o per suscitare in noi paura di castighi e sensi di colpa, ma per imparare ad appassionarci alla medesima causa di Gesù e diventare, come Lui, fonte di vita per i fratelli, anche se questo comporta la sofferenza e persino il morire, nella certezza che, come ci insegna Gesù,  è vero uomo non chi tiene la vita per sé ma chi la dona appassionandosi agli altri.

La liturgia, infatti,  ci propone la contemplazione del Crocifisso, non per indurci a forme di masochismo o per suscitare in noi terribili sensi si colpa che azzerano la nostra gioia di vivere, ma per invitarci ad imitare il suo condividere la passione del Padre per l’umanità, vivendo la vita come un dono e appassionandoci con coraggio e con tenerezza ad ogni vicenda umana perché non si perda, ma si realizzi pienamente.

È questo il senso della Pasqua, che celebriamo nei riti per far nascere nel nostro cuore la stessa passione che ha portato Gesù, il vero uomo, a donare la sua vita per i fratelli.

+ don Valentino

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