Tropico della spigola

Ho sentito qualche giorno fa l’autore del libro: Tropico della Spigola, che presentando l’opera in un programma televisivo, sosteneva che il Sud d’Italia è destinato all’estinzione. Non ho letto il volume e non so se e come affronti l’argomento, ma quell’affermazione mi ha interessato molto, anche perché rivela una mia sofferenza intima, che rischia di diventare convinzione.

Negli ultimi ventisei anni di ministero pastorale (17 anni come Rettore della Chiesa di Campanile a Frasso Telesino e 9 anni come vescovo di Alife-Caiazzo), constatando il progressivo invecchiamento e spopolamento di quelle zone, mi sono spesso domandato: che ne sarà dell’entroterra campano fra trenta, cinquanta, cento anni? E spesso ho pensato ad un piccolo paese del Reatino “Rocchettine”, disabitato e abbandonato, dove da seminarista qualche volta andavo in escursione con i miei compagni e la cui visita mi riempiva sempre di grande tristezza.

La domanda mi ha tormentato soprattutto costatando che il problema è quasi assente dall’agenda reale delle Istituzioni ed, in genere, è guardato con vittimismo e come una fatalità dagli abitanti di quelle zone. Ma la ferita più grande mi deriva dal loro atteggiamento nei confronti di chi pone il problema e tenta di avviare qualche iniziativa controcorrente. Solitamente ho dovuto constatare che scatta tutto l’armamentario di invidie, di gelosie, di chiusure e di cinismo tipico della Provincia,insieme ad un endemico complesso di inferiorità verso situazioni che hanno affrontato e vinto la sfida,  ma soprattutto un forte desiderio di squalificare e contrastare, non per proporre il meglio, ma soltanto per raggiungere l’obiettivo di distruggere l’opera altrui e per la soddisfazione di esserci riusciti. Salvo poi a non far nulla e crogiolarsi nell’atteggiamento vittimistico di sempre.

Per 17 anni mi sono portato tutte le settimane (e talora due volte a settimana) da Roma a Frasso col desiderio di collaborare in qualche modo alla rinascita culturale, civile e religiosa del mio paese. Con soddisfazione, mi sono accorto di essere riuscito a coinvolgere un buon gruppo di persone in sogni e progetti importanti e a raggiungere obiettivi pregevoli per una piccola comunità dell’interno del Sud Italia, che hanno suscitato ammirazione e apprezzamenti da parte di tanti che non sono del luogo o non ci vivono. Ma, ad un certo punto, mi sono trovato oggetto di una guerra sorda, di inimicizie non volute, di boicottaggi di iniziative importanti soltanto per il fatto che erano state da me proposte. Una esperienza che mi ha intristito, mi ha demotivato e mi ha fatto pensare, spero sbagliando, che il cammino della rinascita delle nostre terre è difficile proprio a motivo dei suoi abitanti.

Dieci anni fa, sono diventato Vescovo di Alife-Caiazzo. Ho accettato con gioia la nomina soprattutto perché mi riportava nella mia Terra e mi dava la possibilità di porre al suo servizio il ricco bagaglio di esperienze che – senza mio merito – la Provvidenza mi ha dato di fare nel corso della mia vita sacerdotale. Infatti ho guardato sempre alla Terra in cui sono nato, con lo spirito degli emigranti che dalle finestre di casa, da bambino vedevo partire con la valigia di cartone, ma che tornando in paese dopo mesi di duro lavoro vi portavano i ritrovati di una società più evoluta per creare condizioni migliori di vita. Pensavo, proprio in questi giorni, che il Signore mi ha concesso, attraverso percorsi non sempre scevri da sofferenze, di svolgere il mio ministero in una rosa di situazioni molteplici, che mi hanno dato molto: prete della Diocesi di Roma, educatore in Seminario, Vice parroco per anni in una grande parrocchia romana, docente di Religione nella scuola pubblica, Direttore del Centro pastorale per l’Evangelizzazione del Vicariato di Roma, membro di alcuni organismi della Conferenza Episcopale Italiana o di gruppi di coordinamento a livello europeo,  Amministratore di un Istituto della Pontificia Università Lateranense, Direttore dell’Istituto Caymari, dove fu sperimentato un primo percorso appropriato di formazione degli insegnanti di Religione Cattolica nella Scuola materna, Consigliere spirituale dell’Equipes Notre Dame, impiegato nella Biblioteca Vaticana, professore incaricato nella Pontificia Università Urbaniana, Capo ufficio nella Segreteria di Stato, Rettore della Chiesa della Madonna di Campanile nel mio paese natale, direttore di alcune riviste pastorali o locali, editore di alcuni volumi… Tutte situazioni che non ho cercato, ma nelle quali mi sono trovato inserito, spesso malvolentieri, ma dalle quali ho riportato sempre  la grazia di allargare i miei orizzonti e di maturare il mio profilo di uomo e di prete, non sempre facendo tesoro di tutto, ma avendone dal Signore l’opportunità.

Con tale ricco bagaglio, non comune a molti pastori, che talora, avendo fatto soltanto alcune esperienze tendono a  leggere la realtà da angolature ristrette e a non dare la dovuta importanza ad aspetti rilevanti della missione loro affidata, mi sono buttato a capofitto nella nuova chiamata a servire che il Signore mi affidava con l’elezione a Vescovo di Alife-Caiazzo. Qui, ho vissuto un periodo bellissimo e sono riuscito a dare attenzione a tanti aspetti della vita pastorale che la mia esperienza pregressa mi sollecitava ad affrontare (spesso mi è venuto da pensare, ad esempio: che atteggiamento avrei avuto verso l’Archivio  e la Biblioteca della Diocesi se non avessi lavorato tre anni nella Biblioteca Apostolica Vaticana? Come avrei affrontato il problema dell’iniziazione cristiana, senza i miei undici anni nell’ufficio catechistico del Vicariato?). Come pure ho condiviso sogni, fatiche e speranze con sacerdoti e laici meravigliosi che mi hanno stupito e arricchito per le loro capacità e la loro grande fede.

Ma, anche in questa situazione, ho dovuto constatare con tristezza quel male oscuro del Sud, che talora ha prodotto nei miei confronti guerre sotterranee, boicottaggi, tentativi di manipolazione, confronti ad arte con personaggi mitizzati del passato per squalificare il presente e ricerca di inutili rivincite, in soggetti, dotati anche di buone capacità umane, ma  malati di individualismo e di provincialismo, concentrati su inconfessati e piccoli obiettivi personali, incapaci di donarsi pienamente alla causa del Vangelo in un gioco di squadra bello e a tutto campo.  Per tutti un esempio: mentre stavo iniziando il mio ministero di vescovo, notai che mi stava vicino un giovane prete…. Lo pensavo appassionato alla causa del Regno e sognavo di coinvolgerlo nel sogno di una Diocesi normale e più bella… Scoprii che era soltanto interessato ad essere proposto per un Ufficio in Vaticano….. Voleva fare carriera!

Guardando a queste mie esperienze, talora sono preso dal pessimismo, anche se il Vangelo mi insegna che un seme gettato produce sempre frutto. Dicono anche che i vecchi non sempre sono capaci di valutare a tutto campo il presente. Guardando alle mie riflessioni precedenti – un po’ pessimistiche – lo spero, per il bene della mia Terra e delle persone che il Signore ha messo sul mio cammino.

+ don Valentino

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